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l cosiddetto triduo liturgico della Settimana Santa (giovedì,
venerdì e sabato), oltre che per i sepolcri, gli
(i)scravamen-
tus/ os
un tempo universali nelle parrocchie sarde, e per le
processioni del venerdì, in altri tempi era pure caratterizzato dai
riti e dai “giochi” non solo infantili degli strepiti, tipici di questo
periodo anche per la tipologia degli strumenti adoperati, quasi
sempre lignei.
In certi paesi sardi infatti questo triduo era detto
sas dies de su
mommodinu
, espressione che significa approssimativamente «i
giorni dello strepito». Queste usanze sacre prevalentemente pa-
raliturgiche si sono continuate verosimilmente dall’Alto Me-
dioevo (epoca per la quale esistono molte e certe testimonianze
per diverse altre zone d’Europa) fino all’ultima riforma liturgica
del Concilio Vaticano Secondo.
Su mommodinu
è l’insieme dei rumori, che prima di tutto so-
stituiscono il suono di campane e di campanelli. Questi stre-
piti paraliturgici e i modi e le occasioni di esecuzione erano
diffusi in buona parte dell’Europa occidentale; essi avevano
un riscontro chiaro nella liturgia canonica laddove si indicava
che i ministri e il popolo, al termine del cosiddetto “mattuti-
no delle tenebre”, facessero strepito percuotendo confessio-
nali, libri, inginocchiatoi, porte e soprattutto agitando i crepi-
tacoli tipici dell’occasione, i
sonus lignorum
. Significativo è
infatti che in Gallura lo strumento sia liturgico sia profano,
che altrove in Sardegna è detto ispanicamente
matracca
o al-
trimenti in vari modi (log.
taulittas
, camp.
ta(u)beddas
), sia
detto
lu mattutinu
. Gli strepiti avevano dunque un inizio e un
senso liturgico, con il buio e lo strepito prima del silenzio
prepasquale dei suoni liturgici metallici, sostituiti da quelli li-
gnei. Il gran rumore nel buio della chiesa al termine del “mat-
tutino delle tenebre” era un momento di grande suggestione.
Il crepitacolo anche liturgico più noto in Sardegna è il crotalo
o battola (
sa matracca
o
matráccula
o
táccula
o
strócculas
): due o
tre tavolette fissate a snodo che fanno rumore urtandosi reci-
procamente oppure una tavola di legno su cui sbattono delle
maniglie di ferro.
Altrettanto diffusa era quella che in area campidanese è detta
strocciarranas
(lett. «imita-rane»), in area logudorese
rana ’e can-
na
(«rana di canna») e altrove
matracca a roda
o
furriolu
o
tirrio-
lu
o
zaccarredda
e così via: raganella, pezzo di legno o di canna
in cui è alloggiata una ruota dentata che nel movimento rotato-
rio produce rumore con lo sbattimento di una linguetta idio-
glottide. Questi tre tipi principali hanno nu-
merose varianti e denominazioni locali,
ma solo i primi due sembra abbiano
avuto anche un uso liturgico vero e
proprio, per esempio in sostituzione
del campanello che sottolinea alcuni
momenti del canone della messa.
I ragazzini giravano per il paese fa-
cendo strepito con questi e con più
rudimentali crepitacoli per chiamare i fedeli alle funzioni sa-
cre, sostituendo così le campane mute e legate. Agli strepiti si
accompagnavano filastrocche ormai di difficile decifrazione,
come questo brano mutilo raccolto a Guasila (Cagliari), che si
cantava picchiando con bastoni un tronco che veniva trascina-
to per le strade:
Oi oi, mi ddu pappu tottu,
No ndi lassu mancu unu spizzu...
(«Oi oi, me lo mangio tutto,
Non ne lascio neanche un frusto...»).
Esse si cantavano solo in queste occasioni, che si ripetevano più
volte al giorno dal giovedì al sabato: come per le campane, i
toc-
cos
per invitare alle funzioni erano di solito in numero di tre e i
ragazzi avevano modo di scatenarsi a lungo in questa oscura ma
piacevole ritualità.
Bisogna notare una grande omogeneità storica e geografica di
questa usanza, poiché i riti sono più o meno simili e sostanzial-
mente gli stessi in un’area che va dalla Francia alla Spagna, all’I-
talia centrale e settentrionale e alla Sardegna. Molteplici sono
invece i significati “emici”, cioè “spontanei” e locali.
È ovvio che la Chiesa è riuscita più o meno efficacemente a im-
porre il proprio controllo sul piano rituale sia sacro sia profano,
ma che non altrettanto è riuscita a imporsi sul piano delle con-
vinzioni e del pensiero.
Oltre al senso tradizionale proposto dalla Chiesa, secondo cui
gli strepiti in chiesa e fuori durante il triduo pasquale ricordano
quelli dei giudei e della soldataglia al momento dell’arresto di
Cristo o in altri momenti della sua passione e morte, ci sono an-
che in Sardegna diverse “rielaborazioni”. In Sardegna come al-
trove, del resto, la ritualità del battere si estende e si ripete furi-
bonda fino al momento del
Gloria
della notte del Sabato Santo,
quando nelle case soprattutto i piccoli battono dappertutto ne-
gli ambienti domestici e negli annessi rustici.
L’interpretazione più probabile e accreditata è che si trattasse di
una cristianizzazione parziale di più antichi rituali di espulsione
dei mali, rituali tipici dei momenti di passaggio come quello
centrale annuo della Pasqua di Resurrezione, che a sua volta in-
globa cristianizzandoli antichi riti agrari di primavera, garanti
del raccolto. Si tratta sostanzialmente di un rito “magico”, dun-
que, con l’attribuzione di poteri apotropaici al rumore, al batte-
re e agli strumenti adoperati. In Sardegna si diceva spesso che
così facendo si scacciavano di casa i cattivi spiriti, e che comun-
que tutto ciò serviva a proteggere la casa e i suoi abitanti, le
provviste, il raccolto, il bestiame.
Del resto la cacciata degli spiriti maligni con la ritualità del bat-
tere appartiene ancora al repertorio semantico e formale sia del-
la cultura ecclesiastica sia della cultura popolare. Ambedue in-
fatti condividono l’ideologia e la pratica dell’esorcismo, che
talvolta si pensa ancora oggi di risolvere attraverso le battiture
di cose e di manufatti “posseduti” dal maligno, e anche del cor-
po della persona che si ritenga posseduta.
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Gli strepiti del triduo pasquale
Giulio Angioni